giovedì 30 dicembre 2010

Si truccò a lungo nel bagno, prima di andare. Nonostante fossi di spalle, il corpo rivolto verso il lungo specchio ovale, intento ad indossare una camicia di seta bianca appena stirata, ad annodarmi una cravatta blu scuro, a cercare i pass nel primo cassetto del comodino di fianco a me, e, infine, sempre senza voltarmi, ero costretto a piegare la schiena di 180 gradi per allacciarmi le scarpe, anch’esse nuove di zecche, e per questo un poco scomode, specie sul plantare e sulla punta, potevo lo stesso immaginarla, seduta di fronte al piccolo specchio del bagno, che si dava il rosso sulle labbra, e assicurava ai lobi delle orecchie lunghi pendenti sonori, acquistati a Bangkok, l’anno prima. Mi toccò la schiena con la punta delle dita. – Che dici se mi metto quello nero?- Gli risposi che andava bene, e guardai di sfuggita l’orologio. –Non preoccuparti, faremo in tempo…aiutami solo ad allacciare la lampo…Mi ritrovai a trafficare dietro la sua schiena, che, visibile fra le due falde scure dell’abito, sembrava una lunga striscia di latte cagliato…i nei, neri punti di riferimento, erano stelle remote e fisse in quel bianco lacerto di carne flessuosa e candida…Via lattea, Cosmorama, Drive Inn, e quella volta in tenda, sotto la simulazione del cielo stellato, organizzato dall’istituto astronomico….
-Allora, cosa fai lì impalato- mi redarguì con una carezza sul mento…-sono pronta- e scostandosi si raccolse i capelli in una lunga coda di cavallo…le scarpe a tacco alto erano quelle dei coreuti e delle indossatrici sulle passerelle...Quando fummo sulla porta, mi voltai indietro per chiudere l’interruttore…il grande poster stava appoggiato sopra il tv color 60 pollici, incorniciato da un bordo sottile color ebano…non avevamo ancora avuto il tempo di attaccarlo alla parete, che biancheggiava nuda, ai lati…Mostrava un paesaggio informale…su una campitura ocra si
stendevano pennellate nere, che formavano una specie di sinistro reticolato, come i segni lasciati dall’erpice sulla terra riarsa di un campo appena dissodato…Una donna nuda stava inginocchiata colta mentre stava annodandosi una lunga treccia…la parte inferiore del corpo, perfettamente delineata, la faceva assomigliare ad una Venere accovacciata…la parte superiore, invece, era crudelmente scancellata…il viso, circondato dal bianco della tela non lavorata sembrava baluginare, come per l’influsso di una stella benigna… la gran plaga del cielo era un ammasso compatto
violaceo e insalubre, striato da nuvole verdecupo, come il mare che si impigrisce sotto i fiordi appesi…Il titolo, posto su un cartiglio in basso a destra recitava “C’è vita su Marte?”…
Il portellone del garage sotterraneo mi parve straordinariamente pesante…ero fiacco e debolissimo…lei disse –forza- e fece per aiutarmi, ma la saracinesca si aprì di schianto, come una grande ala scura, immettendoci nella gora d’ombra della rimessa…lei entrò sicura, spostandosi di fianco, aspettando che le aprissi la portiere… io andai dall’altro lato, e seduto al posto di guida, mi piegai per sollevare la sicura alla mia destra…la vidi con la coda dell’occhio, mentre si accomodava una coppa del reggiseno… poi entrò e disse..-dai andiamo- .Misi in moto. La piccola auto sussultò cupamente prima di partire…la salita del garage, la sbarra automatica, il semaforo alla fine della strada, mi parvero un insensato percorso a ostacoli…-Guarda- fece lei…Ce ne sono anche qui-… -Già- …Si riferiva ai grandi manifesti pubblicitari, alti più di un metro, che mostravano un uomo e una donna affiancati, e, sotto di loro, un grande plastico bianco con una città in miniatura…sotto una scritta cancellata dalla pioggia recente EN… N… G…O…e un indirizzo...
Il posto era fuori mano e, per raggiungerlo, una volta usciti dalla statale, bisognava percorrere una lunga strada di campagna ad una sola corsia piena di buche e senza illuminazione…Gli abbaglianti illuminavano ulivi contorti e pianure verde scuro…- Questa strada fa davvero paura…se la macchina dovesse fermarsi per un guasto…sarebbe tremendo…non abbiamo visto una casa per chilometri…-
-Già è tutto piuttosto desolato…e non c’è nemmeno illuminazione- -Accellera- mi disse allora…- Voglio arrivare il prima possibile- Correre su quella sottile striscia di terra, circondati da due lati di campagna selvatica era come procedere lungo il filo sottile e teso di un acrobata… La villa era illuminata da fiaccole fumiganti. Fermai l’auto davanti all’ingresso…Dall’altro lato del cancello erano ammassati cumuli di spazzatura nera, a sacchi, dai quali fuoriuscivano liquidi
rossastri che contaminavano il selciato, bruciando l’erba rada come un’ustione. –Che puzza- fece lei, mettendosi un fazzoletto verde cupo davanti al viso…- Bussa fai presto…- Bussai…il pulsante del citofono era morbido e rotondo, come l’ombelico di una donna incinta, come gelatina o gommapiuma…Nessuno rispose ma il cancello di ferro battuto, altissimo e con lunghi pinnacoli appuntiti sulla sommità, si aprì automaticamente…Rientrai in macchina…e feci una breve marcia indietro…dallo specchietto retrovisore vidi che si radunavano squadriglie di grossi topi…Lo
squittìo, che mi parve di udire distintamente, per un lungo attimo sembrò coprire la musica proveniente dalla villa.
Si era levato un vento freddo. Tirai su il bavero del cappotto… lei si avvolse nello scialle nero, coprendosi la gola…
Un maggiordomo in livrea, immobile sullo stipite del portone d’ ingresso, come una cariatide, come un prigione, chiese di vedere i pass. Gli mostrai i piccoli biglietti rossi, di carta dura, un poco sgualciti, che tenevo nella tasca interna della giacca …
Una volta dentro ci investì una grande luce, come di mille candele…Percepii chiaramente un rumore simile allo sbattito d’ali degli uccelli in gabbia…Ma erano molte decine di migliaia…Eravamo nel vestibolo…Lei disse: -Aspetta. Prima di entrare fammi fumare una sigaretta-. Ma prima, chissà perché, mi diede un lungo bacio sulla bocca, pieno di saliva, vischioso di rossetto. La sua lingua mi guizzava sul palato, sulle labbra, con insistenza meccanica…era un bacio pieno di risentimento.
Improvvisamente la musica nella stanza mutò, e il valzer venne sostituito da un canto gregoriano.
Varcammo la porta di ingresso, immemori e come ubriachi per l’aria rarefatta.

domenica 28 novembre 2010

Se i nostri sentimenti sono puri...

Sento le foglie cadute, il loro odore d'erba bagnata misto alla terra marcia. Il rumore dei miei passi nel parco. Il tempo che passa. L'aria fredda sul viso.

Cammino e guardo le giostre per bambini, deserte. Da qui è appena visibile il lato esterno del seminario. Un fratello mi saluta da lontano, sta camminando anche lui in mezzo agli alberi del parco cittadino, forse sta rimuginando le parole che Padre Luigi ci ha detto. Quella cosa su cui insisteva, sul non stare a perdere tempo ad ingannarci, che siamo giovani e possiamo cambiare idea da un giorno all'altro e allora tanto vale cambiarla subito e andarsene.

Do un calcio ad una pigna, rotola e va a sbattere contro un tronco. Se i ragazzi del mio quartiere mi vedessero così, conciato in questo modo, con il saio addosso. Penserebbero che mi sono completamente rincoglionito. Mi immagino la faccia che farebbero Raffa e Pietro, con cui fumavamo spinelli di nascosto e ci ubriacavamo di vinello economico. Il fatto che io mi sia rincoglionito è comunque la versione ufficiale, nel senso che nella vecchia comitiva alla fin fine dovevano spiegarsela in qualche modo, e se la sono spiegata così.

Non dovrei pensare a quella vita, mi viene in mente Monica e la sua delusione nel vedermi partire. Il suo dirmi che sono un vile attraverso lo sguardo di compassione, le espressioni di circostanza, le battutine innocue. Tipo "va be, sarà un po come continuare l'università, si studia molto anche lì...". Mi ricordo come ho cercato in tutti i modi, negli ultimi giorni, di dirle un'unica cosa. Restituendole i libri prestati, regalandole una bottiglia di vodka che non avrei mai bevuto, portandole perfino un fiore, cosa che non avevo mai fatto. Dimenticami Monica, questo il pensiero che avevo in testa. Ma ora che ci ripenso, lei potrebbe aver interpretato il mio rituale d'addio in tutt'altro modo.

All'inizio era anche lei entusiasta di questo ritrovare la religiosità. Eravamo a letto e dopo aver fatto l'amore leggevamo passi della bibbia. Ci abbracciavamo e prima di andare a dormire ringraziavamo il Signore per quelle giornate intense e indimenticabili. Ridevamo perfino del comportamento strano di Abramo, dei dispetti che Dio fa agli uomini, di cui è pieno il vecchio testamento. Io una volta dissi che io e lei non peccavamo, perché se i nostri sentimenti erano puri eravamo come sposati. "Ti stai costruendo la tua religione su misura?", rideva, poi diceva che era bello quello che avevo detto, ma il matrimonio vero sarebbe stato in chiesa e sarebbe stata una gran festa con un sacco di invitati.

Calpesto foglie gialle autunnali, umide di pioggia. Lascio andare i miei pensieri, li slego dalle resistenze che hanno subìto negli ultimi giorni,  permetto a ogni idea di farsi largo nel mio cervello. E' come una sorta di confessione che affido alla mia scatola cranica. La mia fantasia ha sempre vissuto di vita propria, in modo perfino imbarazzante. La lascio andare come una sfida contro me stesso. Come se volessi esplorare il fondo di una discarica. Rivedo allora la mia stanchezza davanti al suo corpo nudo, le strane fantasie che ogni tanto mi apparivano in testa, la sensazione che il significato che aveva permeato la nostra vita in comune, si ritirasse come una bassa marea, un lago che evapora inesorabilmente.

Si è fatto tardi, la pausa sta per finire e dobbiamo tornare nella sala adiacente la chiesetta. Un francescano mi fa segno da lontano. Sorride. Siamo ancora all'inizio. Questa fase del percorso vocazionale si chiama discernimento. Per un attimo mi vengono in mente i tre giorni della visita militare. Chiudo gli occhi e prego Dio di guidarmi verso la giusta direzione.

giovedì 4 novembre 2010

- La prima cosa che ho sentito è stata la sua voce e un odore fortissimo, di alcool, non so, disinfettante, hai presente quell’odore tipico di asettico?
- Sì, ho presente.
- ...
- ...
- Che poi, in realtà, ho sentito prima l’odore e poi la sua voce, l’odore era fortissimo, quasi faceva male in quello stato di calma ovattata, una sensazione davvero assurda provare una sensazione alla volta, ehm... credo che non siamo abituati, di solito abbiamo tutti i sensi che lavorano insieme.
- Sarebbe figo poter spegnere tutti i sensi per isolarne uno e goderne a pieno senza distrazioni. Scusa, non volevo...
- ...
- ... cioè intendevo...
- Non preoccuparti, capisco. Sì, in effetti, credo di averci messo un po’a distinguere esattamente cosa stesse succedendo, voglio dire, capire che stavo sentendo un odore. Il tempo è l’unica cosa che non riesco a quantificare, non ho idea di quanto tempo sia passato fra gli eventi. Credo di aver sentito l’odore per qualche giorno prima di sentire la sua voce e quelle degli altri ma non ne posso essere certo.

Continuava a guardarmi con quella faccia misericordiosa, sembrava che stesse parlando con un cane bastonato. Voglio dire, che avrà avuto mai da provare tutta quella pena? Stavo bene, quantomeno ci provavo, le avevo detto che mi vedevo con la mia infermiera praticamente da quando ho ripreso i sensi e lei continuava a guardarmi come si guarda un martire, con quelle mani frenetiche che mi danno ai nervi. Se ne stava per minuti senza parlare a mangiarsi quelle unghie, non la smetteva di fumare e di guardare quel pacchetto di tabacco che aveva davanti.

- Diego, io ho una figlia.
- Lo so già.
- Immaginavo, compie un anno fra venti giorni... tu mi avevi ferito... io ero a pezzi, mi avevi detto del tradimento, poi l’incidente, poi non ci ho capito più niente...
- Non devi giustificarti. Non piangere.
- ...
- Dai non è niente.
- Non mi sto giustificando, ti sto solo spiegando. Mi sono sentita una merda, quella sera, mentre venivo in ospedale ricordo di aver pensato che te lo meritavi quell’incidente, ero fuori di me. Da quando ho saputo che ti eri ripreso è stata una tortura...
- Anche per me, fidati.
- Voglio dire che avrei voluto cercarti prima ma non sapevo come..., ho pensato che forse avevi bisogno di tempo.
- Io non ti sto recriminando niente. Smettila di piangere ti prego.

  C’è da rimanerci secchi a pensare quante cose siano successe a lei e quante poche a me. È sempre bellissima, anzi forse di più ma adesso credo che mi è indifferente la sua bellezza.
Chissà se l’incidente abbia modificato il mio modo di sentire le cose, i sentimenti, chissà se sono capace di provare ancora sentimenti. Me ne sto qui in questo bar del centro a parlare con la ragazza a cui, tre ore prima che m’investissero, avevo confessato il mio unico tradimento con una leggerezza devastante, come se le avessi detto che ero andato a prendere un aperitivo al bar. Non so davvero dove volessi arrivare con quella confessione, i dettagli, le sensazioni, le avevo raccontato tutto forse per provocarla o chissà per quale altro bizzarro motivo, però non mi è piaciuto, davvero, avevo terminato con fierezza. E davvero non mi era piaciuto perché con lei potrei dire qualsiasi cosa tranne che non facessimo l’amore da dio, avevamo raggiunto un’intesa da non crederci, era l’incarnazione di ogni mio desiderio, di ogni mio istinto più segreto, di ogni mia piccola perversione, se io lo fossi per lei, bisognerebbe che glie lo chiedessi ma forse non è il caso né il momento.

- Ti piaceva scopare con me?
- Ma che cazzo di domanda è questa? Che c’entra adesso? Non ci vediamo da... no, anzi, tu non mi vedi da quattro anni, perché nei tre anni che sei stato in coma, come un fottutissimo fantoccio di gomma, ci sono sempre stata, nonostante ti odiassi perché sei una testa di cazzo io ero lì, i primi tempi sono passata tutti i giorni e ti ho parlato, accarezzato, baciato, ho pianto e pregato perché non morissi, mi mancavi, mi mancavi come l’aria quando sei sott’acqua, pregavo per arrivare a galla a respirare di nuovo ma tu non ti svegliavi e i medici dicevano che la tua situazione era particolare e che c’erano i presupposti perché tu ti risvegliassi ma non potevano dire quando, e se, sarebbe successo. Quando ti hanno trasferito alla clinica su in collina, io sono crollata, non ce la facevo più, la tua assenza mi ha sfiancato, ho mollato e ho cominciato a venire meno e poi è successo che... non so nemmeno perché te le sto dicendo queste cose!    
- ...
- Io ero felice con te Diego, ti amavo nonostante tutto ma tu eri... tu eri... tu non eri più, c’era il tuo corpo che cambiava forma, colore è stato atroce che non so nemmeno spiegarlo per come lo è stato, avevo bisogno di un appiglio e l’ho trovato e poi le cose sono andate in questo modo e ora ho un marito e una bimba e forse era meglio che non fossi venuta nemmeno a quest’appuntamento, forse è presto, forse avremmo dovuto aspettare ancora un po’ e rispondi a sto' cazzo di telefono per favore!

  Era il mio agente, si trattava di lavoro, alla sua domanda risposi di si, risposi che immaginavo già, avevo ancora il giornale con la pagina di cronaca sotto mano, certo me la sentivo non era mica il primo, dopo l’incidente. Lei mi guardava con aria sconvolta, probabilmente il fatto che già fossi tornato al lavoro la sbalordiva. Si certo, dov’è che devo andare? Ok, dammi una quarantina di minuti e sono lì.
Irene era una donna con un forte senso dell’umorismo, ci sono rimasto male quando sventolando il mio bastone, le ho detto che dovevo scappare, io l’ho trovata una battuta geniale ma il mio sorriso deve averle dato ai nervi a giudicare dal suo “va’ all’inferno” di congedo, probabilmente non la rivedrò presto.
     Ho chiesto il conto a questo ragazzino dalla faccia simpatica, gli ho lasciato qualche euro di mancia e ho fatto per alzarmi, ancora non mi abituo al fatto che la gente mi chieda se ho bisogno di aiuto solo perché giro con un bastone e ho una gamba che non funzionerà mai più come prima. Appena fuori dal bar un vento gelido mi schiaffeggia la faccia, è solo l’inizio di novembre ma fa già molto freddo, alzo gli occhi e guardo questo cielo bianco e mi chiedo perché non sono morto in quell’incidente, mi abbottono la giacca e lascio la mia domanda al vento.